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Lea Garofalo

La mafia

imagesIl termine mafia indica una particolare e specifica tipologia di organizzazzione criminale, generalmente dotata di peculiari caratteristiche.

Una delle organizzazioni del genere più famosa è nota come casa nostra, espressione riferentesi alla mafia siciliana, che venne utilizzata per la prima volta pubblicamente dal primo Pentito statunitense Joe Valachi.

L’effettiva origine del lemma e del fenomeno sono ancora oggi incerte. Alcuni ritengono che il fenomeno abbia origine e sia ispirato dalla setta segreta spagnola della Garduna, secondo altri da quella dei Beati Paoli, operante in Italia nel XII secolo circa. Una delle prime apparizioni del termine fu in un documento redatto in Italia, dal funzionario del Regno delle Due  SiciliePietro Calà Ulloa scrisse, a proposito del fenomeno, nel 1838

Riguardo l’origine del termine, un primo utilizzo venne registrato in Sicilia nel 1863, nell’opera teatrale I mafiusi de la Vicaria, ambientata nel carcere della Vicaria di Palermo e scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. Secondo Giuseppe Pitrè il termine mafioso indicava una persona, un oggetto o un ambiente “di spicco” e nell’insieme abbia un non so che di superiore ed elevato  Una casetta di popolani ben messa, pulita, ordinata, e che piaccia, è una casa mafiusedda e solo dopo l’inchiesta del procuratore palermitano è obbligata a rappresentare cose cattive. Tuttavia il Pitré non ne chiarisce l’origine….

 (La mafia è silenzio la mafia è pericolo )

Secondo Santi Correnti invece, che rigetta le origini del termine dall’arabo, sarebbe un termine piuttosto recente, forse derivato dal dialetto toscano, trovando un riscontro nella parola maffia. Di simile avviso Pasquale Natella  che ricorda come a Vicenza e Trento si usasse il vocabolo maffìa per indicare la superbia e la pulizia glottologica   va subito applicata in Venezia dove a centinaia di persone deve essere impedito di pronunciare S. Maffìa  . La diceria copriva, si vede, l’intera penisola e nessuno poteva salvarsi; in tutte le caserme ottocentesche maffìa equivaleva a pavoneggiarsi e copriva il colloquio quotidiano così in Toscana come in Calabria, dove i delinquenti portavano i capelli alla mafiosa.

In merito a ciò ricordiamo quanto scritto già nel 1853 da Vincenzo Mortillaro nel suo Nuovo dizionario siciliano-italiano  per Mafia: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Tra le cause della nascita del fenomeno sono sicuramente da annoverare il dominio dal latifondo che vessava una massa di contadini miserabili. Fra nobiltà terriera e contadini era presente un ceto di spregiudicati e violenti massari, campieri (“guardie armate” del latifondo) e gabelloti (gestori dei fondi a gabella, cioè in fitto) che terrorizzavano i contadini e i proprietari con i loro sgherri, venivano a patti con i briganti, amministravano una rozza giustizia che però non ammetteva alcuna forma di opposizione. I briganti, i ladri, i ribelli avevano un ambiguo rapporto con i massari.

I contadini servivano i massari e vedevano talvolta in loro degli alleati possibili contro i latifondisti che a loro volta si servivano dei massari e dei campieri, pur disprezzandoli e temendoli, come forza contro il latente pericolo costituito da possibili rivolte delle masse contadine. Massari e campieri si servivano dei briganti contro nobili e contadini ma sapevano anche spazzarli via con violenza quando dovevano dimostrare a tutti gli abitanti del feudo chi comandava effettivamente. La mafia, per giungere al dominio del territorio, controllava non solo il mondo rurale, i trasporti, l’attività mineraria, gli allevamenti, ma anche la delinquenza urbana, i tribunali, le centrali di polizia, i centri del potere. I mafiosi erano nel contempo imprenditori, organizzatori della produzione, giudici, gendarmi, esattori delle tasse, poiché prelevavano quote di ricchezza dal lavoro e dalla rendita dei ceti sociali in mezzo ai quali vivevano ed operavano.[9]

Nell’età moderna prima e contemporanea poi, mentre nella maggior parte dell’Europa i poteri legali e centrali si rafforzavano ed espandevano, fenomeno risaltato soprattutto dalla nascita dei primi stati nazionali, in Italia ed in Sicilia è in una situazione di legalità frammentata: i signori feudali in concorrenza con i deboli poteri centrali; un groviglio di giurisdizioni e di competenze; i deboli esposti allo strapotere dei signori e degli sbirri; i deboli ceti produttivi e mercantili soggetti alle soperchierie di funzionari e baroni. La violenza, in questo contesto premessa per la sicurezza, si privatizza: i signorotti del posto hanno i loro sgherri, l’Inquisizione ha i suoi ufficiali ed agenti, le corporazioni hanno le loro compagnie d’armi, i mercanti pagano le scorte armate per i trasferimenti di merci. Si assiste ad un continuo scontro di poteri e di interessi, in una terra, la Sicilia, in cui il continuo succedersi di poteri e dominazioni non ha favorito la coesione tra popoli e governanti.

Nel corso del XX secolo le aggregazioni rette dalla legge dell’omertà e del silenzio consolidarono un’immensa potenza in Siciliae riemersero dopo la seconda guerra mondiale. La letteratura italiana, a partire dal secondo dopoguerra, ha spesso prestato attenzione al fenomeno. Nel 1959, quando il fenomeno era ormai diffuso e aveva già subìto l’evoluzione storica dellaseconda guerra mondiale, Domenico Novacco[12] invitava ad una lettura critica del passo di Mortillaro, in quanto a suo dire la “boutade” del Mortillaro (…) era emessa nel solco d’un filo autonomistico siciliano antiunitario che dava ai sabaudi il demerito d’aver introdotto nella immacolata isola cattive tradizioni e tendenze paraispaniche.

Leonardo Sciascia scrisse “La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia, crediamo sia questa: la mafia è un’associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. In un suo studio apparso nel 1972 su Storia illustrata, ricostruisce con molta attenzione l’origine del termine mafia. Riprende anche la teoria in merito all’introduzione del vocabolo nell’Isola ricondotta all’unificazione del “Regno d’Italia” espressa da Charles Heckethorn, ripresa poi dall’economista e sociologo Giuseppe Palomba, il termine «MAFIA» non sarebbe altro che l’acronimo delle parole: «Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti». Fino a che punto sia fondato questo studio, rimane però da considerare il significato antropologico non privo di valore riguardo a un’organizzazione segreta a specchi capovolti che sarebbe nata nell’isola con finalità più o meno carbonare. Sempre con un acronimo il giornalista Selwyn Raab tenta di spiegare in un romanzo storico le origini della mafia, riallacciandosi al mito dei Beati Paoli e ai precedenti moti antifrancesi durante i cosiddetti Vespri siciliani come già fece in sede di interrogatorio Tommaso Buscetta, facendone derivare la frase “Morte Alla Francia Italia Anela“.

Ovviamente appare del tutto inusuale che nel XIII secolo si potesse parlare nel Regno di Sicilia in maniera tanto colta tra le classi basse la lingua italiana, al punto da usarla per la realizzazione di un acronimo, costume più sovente delle rivolte popolari e dei moti carbonari del XIX secolo. Sul piano storico e antropologico va comunque osservato che in origine al fenomeno, attecchito sul territorio siciliano, veniva assegnato proprio questo termine esteso poi alle potenti organizzazioni associative a livello mondiale. Tuttavia, rimane comunque il fatto che nell’uso comune il termine mafia è ormai diffuso su larga scala planetaria.

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